
Marcello
Pacifico (Anief-Confedir): è scientificamente
provato che svolgono il mestiere che impegna di più in relazioni umane e nello
sviluppo della persona. Ma paradossalmente è anche quello che è stato più
sacrificato sull’altare dei tagli nella pubblica amministrazione. E poco conta
che a pagare il prezzo di questo errore sono anche gli alunni, che si ritrovano
una fetta sempre più grande di docenti demotivati e stanchi.
Diventa sempre più in salita la strada
delle donne che insegnano nella scuola pubblica: dopo la “stretta” introdotta
dalla riforma Fornero, con l’innalzamento progressivo dell’età pensionabile,
tanto che nel 2018 potranno
lasciare il lavoro solo a 67 anni, con la Buona Scuola saranno decine di
migliaia costrette ad essere assunte lontane dalla loro regione di appartenenza
e costrette in larga parte a rimanervi per tre
anni.
E lo stesso vale per tutte quelle di ruolo che continuano a chiedere di
avvicinarsi a casa nell’ultimo periodo, ma una norma
anacronistica sui trasferimenti le continua a tenere lontane dai loro
affetti.
Il sindacato chiede da tempo di
applicare delle deroghe per il mondo della scuola, ma la politica che continua
a prevalere, concentrata a risparmiare sulla pelle dei lavoratori, va verso la
direzione opposta. Ricordiamo che nella categoria dei docenti, le donne
rappresentano l’81,1%: se ci fermiamo all’organico di diritto, 665.332 posti,
si tratta quindi di oltre mezzo milione di insegnanti. In Europa solo un Paese,
l’Ungheria, conta una presenza maggiore di sesso femminile (82,5%).
Se ci si concentra sulla scuola
d’infanzia, in Italia si stabilisce un record mondiale: solamente lo 0,4% di
maestri sono uomini. Una presenza che alle superiori si riduce sensibilmente,
ma sfiorando il 60% costituisce sempre la grande maggioranza. Anche in questo
caso si tratta di una caratteristica tipicamente italiana: basti pensare che in
Germania le donne di ruolo impegnate nella scuola secondaria di secondo grado
sono appena il 46,2%.
A causa dei 200mila tagli di posti
degli ultimi anni, inoltre, il loro reclutamento è diventato sempre più
complicato: i docenti precari sono stati tagliati del 25%, mentre quelli di
ruolo sono scesi del 6%. Così il tempo di attesa che porta alla stabilizzazione
si è allungato. Tanto è vero che oggi le nostre docenti con meno di 30 anni
sono appena lo 0,5%: in
Germania sono il
3,6%, in
Austria e Islanda il 6%, in Spagna il 6,8%.
Ma anche in “uscita” il percorso delle
donne insegnanti si fa sempre più difficile: quest’anno le norme per accedere
all'assegno pensionistico hanno portato le lavoratrici del pubblico a lasciare
il servizio a 63 anni e 9 mesi. Nel 2018 per entrambi i sessi serviranno quasi
67 anni: per comprendere l’enormità del numero, basta dire che 20 fa, prima
della riforma Amato, le insegnanti potevano lasciare anche a 55 anni. Esemplare
è la triste vicenda dei
‘Quota 96’, che
a due anni e mezzo di distanza dall’introduzione della riforma Monti-Fornero
ancora non trova luce.
Anche le proiezioni sono davvero
pessime: tra 15 anni, nel 2030, si potrà accedere alla pensione di vecchiaia
solo oltre i 68 anni; mentre per accedere all’assegno di quiescenza anticipato
bisognerà aver versato attorno ai 44 anni di contributi. E già oggi i pochi
fortunati che possono lasciare prima, si vedono quasi sempre decurtare
l’assegno pensionistico di cifre non indifferenti, in media del 25%. Come se
non bastasse, “per più
di quattro pensionati su dieci l'assegno non arriva neppure a mille euro al
mese”, oltre
la metà (il
52%) sono donne, e
“il potere d’acquisto delle pensioni è in caduta libera: in 15
anni è diminuito del 33%”.
Inoltre l’‘opzione donna’,
reintrodotta dal Governo negli ultimi mesi, si è rivelata una beffa: la
possibilità, prevista dalla legge 243 del 2004, per le lavoratrici con almeno
35 anni di contributi e 57 anni d’età di andare in pensione, ha avuto un prezzo
davvero salato da pagare, fino al 39% di perdita
dell’assegno pensionistico.
“Tutto ciò avviene – spiega Marcello
Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir - malgrado sia
stato scientificamente provato che chi opera nella scuola svolge uno dei lavori più
stressanti e a rischio burnout: è il mestiere che
impegna di più in relazioni umane e nello sviluppo della persona. Ma
paradossalmente è anche quello che è stato più sacrificato nell’altare dei
tagli nella pubblica amministrazione. E poco conta che a pagare il prezzo di
questo errore sono anche gli alunni, che si ritrovano una fetta sempre più
grande di docenti demotivati e stanchi”.
In Italia, la correlazione tra stress
da insegnamento e patologie è stata confermata dallo studio decennale ‘Getsemani’ Burnout
e patologia psichiatrica negli insegnanti, da cui è emerso che
la categoria degli insegnanti è quella che di più conduce verso patologie
psichiatriche e inabilità al lavoro: dallo studio è emerso che ad essere
stressati per il lavoro logorante sono, a vario titolo, il 73 per cento dei
docenti. Quasi l’82% sono donne.
Per
approfondimenti:
7 marzo 2015
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